Tempi di miseria. Malattie e scarsità di cibo e acqua: a Tremiti, i coatti si sostituiscono ai frati.

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1737

di Maria Teresa De Nittis

Una dolorosa antichissima tradizione di pena.

L’autonomia politica e amministrativa,  dalla data di  fondazione dell’Abbazia-fortezza da parte dei Benedettini e poi dei Cistercensi, cesserà con i Canonici Regolari Lateranensi, nonostante che i frati, sicuri della loro continuità,avessero scolpito sul portico di levante del dormitorio nuovo tuttora esistente, che “eterna era la loro casa ed eterno il loro tempio,qualunque fosse stato il destino del resto del mondo”. Con la soppressione del monastero, si disperse la popolazione di artigiani sarti, calzolai,muratori,falegnami, boscaioli, panettieri, agricoltori, fabbri, barbieri, che contribuivano all’economia delle isole. Nel 1737 il possesso delle isole verrà rivendicato dai borboni e annesse al regno di Napoli. Con ordinamento del 13 giugno 1792, Ferdinando IV istituì a Tremiti una colonia penale, assegnando a ciascun deportato  “cinque tomoli di terreno, il suolo per la casa, gli attrezzi del mestiere e cinque grana al giorno per i primi tre anni”  e in base a tale ordinanza , Gennaro Pallante di Calabria, Consigliere di Stato, per liberare la città di Napoli da elementi indesiderabili al regno, li destinò alle Tremiti. Le solitarie isole di Diomede tornavano in tal modo, alla loro antichissima tradizione di pena, come dimostrano i resti nella zona archeologica di San Nicola (alle spalle dell’abbazia fortezza) di un sepolcreto greco-romano, costituito di fosse geometriche, scavate nella pietra, tra esse, la leggenda colloca la Tomba di Diomede e il ripostiglio del suo tesoro, che verrà rinvenuto “per rivelazione della gloriosa Vergine”, da quel pio eremita, il Beato Giovanni da Foligno(ctz. P.A.M.Di Chiara, Il Beato Giovanni da Foligno, primo eremita delle Isole Tremiti,Lucera,1984), che nel [311?] d.C. viveva di preghiera sull’isola; e ancora la leggenda parla della trasmutazione dei suoi compagni in uccelli favolosi, forse l’Avis Diomedea di Plinio, destinati a vegliare con il pianto il sonno eterno dell’eroe. Lo stesso sepolcreto, dovrebbe ospitare una tomba costruita in “opus reticolata” ( IV- III sec.d.C.) appartenente, forse a Giulia, nipote di Ottaviano Augusto. Secondo la testimonianza di Tacito, fu lo stesso imperatore che la esiliò in “insulam Trementum” per la vita scandalosa e adultera che conduceva assieme alla madre, a sua volta confinata a Pandartaria (Ventotene).Nel luglio del 1861 con l’Unità i deportati furono rimessi in libertà, alcuni ritornarono nei luoghi di origine, altri restarono come coloni. Il 21 gennaio 1932 (R.D. Legge n. 35)  le Isole Tremiti diventano Comune autonomo; nel febbraio del 1938 viene inaugurato l’impianto termico per l’illuminazione elettrica, in sostituzione di quella a petrolio, a S. Nicola e a S. Domino, installato in quest’ultima località. Nonostante vari tentativi di abrogazione del domicilio coatto, il destino storico delle Tremiti, paradossalmente, era di carcere sul mare. Con la promulgazione da parte del regime fascista delle leggi di pubblica sicurezza del novembre del 1926 fu introdotto il confino di polizia, istituto modellato sulla struttura del domicilio coatto, con l’obbligo di soggiorno per i soggetti ritenuti più pericolosi nelle colonie di confino e per gli altri in piccoli villaggi del meridione d’Italia. Nel 1943 la caduta del regime fascista determinò la liberazione dei confinati e venne chiusa definitivamente la “prigione sul mare” delle isole Tremiti.

Il pianto dei “Diomedei”.

Come già detto,considerare le Isole Tremiti come luogo di punizione risaliva indietro nel tempo fino a Roma imperiale, quando Ottaviano Augusto esiliò sua nipote Giulia accusata di adulterio, e nel 780 Carlo Magno vi condannò al confino Paolo Diacono. Un territorio,dunque, in continuità di prigionia; desolazione, miseria, solitudine, Caienna nel regno delle due Sicilie e confino di polizia durante il fascismo. Al domicilio coatto borbonico venivano inviati condannati per reati comuni con l’intento di togliere dal loro ambiente persone che dimostravano una persistente tendenza a delinquere con l’illusione che in un ambiente diverso, più ristretto e quindi più controllato, e con l’opportunità di lavorare potessero redimersi. Solitamente il domicilio coatto, per questi condannati, durava da uno a cinque anni. Essi potevano circolare liberamente durante il giorno, ma dovevano passare la nottestipati in cameroni privi di pavimento. In ogni camerone venivano ospitati oltre sessanta coatti; tra un letto e l’altro non vi era spazio di sorta sicché tutti i letti, per il modo come erano ammassati, venivano a costituirne quasi uno solo. Niente lenzuola, né guanciali e coperte, ma un magro pagliericcio ripieno di paglia spesso marcita, per cui quasi tutti si coricavano vestiti, specie nel periodo invernale. Molti usavano mettere sotto una delle testate del pagliericcio un sasso perché così rialzato potesse adempiere anche alle funzioni di cuscino.Tutti i cameroni erano privi di qualsiasi locale igienico, non esistendo alcun tipo di fognatura o pozzo nero; per le naturali necessità i coatti nelle ore notturne provvedevano con dei ‘ovvero con dei recipienti di legno, che rimanevano entro gli stessi cameroni per tutto il corso della notte e che solo al mattino venivano portati via e svuotati. Vecchi e giovani, uomini di tutte le età, vivevano in un’atmosfera di vizio e di degenerazione. Queste condizioni erano aggravate nei periodi di punizione che venivano impartite dal direttore della colonia. Le malattie contagiose della pelle traevano origine dall’ambiente arido e secco,dai cibi malsani legumi, tonnina e dalla scarsa pulizia.Diffuse e numerose erano anche le  affezioni reumatiche,congiunte con forme catarrali che causano anche infezioni gastro-reumatiche, gastroenteriti, pleuriti e pneumopatie.Nel 1890 imperversava anche la sifilide. “La sifilideE la sifilide produce la tubercolosi, la rachitide. Nel periodo del confino di polizia fascista L’isola di San Domino era piena di internati di tutte le etnie, italiani, croati, francesi, spagnoli perfino ebrei e zingari. C’erano anche alcuni neri. Ma per metà erano sloveni e croati, perlopiù dalla Venezia Giulia. antifascisti, anche se di diverso credo ideologico. La maggior parte degli internati politici italiani era composta di comunisti. Erano ben organizzati. Ricevevano notizie e istruzioni dalla terra ferma. Fra loro, il personaggio di spicco era il dottor Eugenio Musolino, Erano di diversa estrazione sociale e mestiere: ufficiali, avvocati, ingegneri, medici, artisti, ma anche commercianti, artigiani, pescatori e contadini. Gli organi di sicurezza svolgevano il loro lavoro, ma non erano troppo severi. Abitualmente si attenevano rigorosamente alle norme previste. Erano fascisti per opportunismo e probabilmente il loro servizio sull’isola era una punizione. Gli internati ricevevamo cinque lire al giorno. Con questi soldi dovevano provvedere a tutto, dal cucchiaio per mangiare, al lavaggio degli indumenti. Sulla carta annonaria c’era un lungo elenco di ciò che potevano acquistare, ma in realtà ricevevano solo 150 grammi di pane al giorno. Nello spaccio dell’isola si potevano trovare abitualmente i ceci, la cipolla e la marmellata; non c’era altro. A volte attraccavano i pescatori delle isole vicine e offrivano del pesce che non erano riusciti a vendere al mercato.  Dalle testimonianze dei condannati ( http://campifascisti.it/) durante il periodo d’internamento a San Domino sappiamo con precisione della scarsità di cibo e acqua e delle insostenibili condizioni generali di vita.
Per pranzo cucinavamo erbe selvatiche con i ceci, nei giorni migliori con il pesce: il tutto senza una goccia d’olio. Per cena c’era la marmellata annacquata oppure cipolla. Questo nei tempi di abbondanza. Nella primavera del 1941, quando l’Italia attaccò la Grecia e la Jugoslavia era anche peggio. Si rimaneva per settimane e settimane tagliati fuori dal mondo, una volta per quasi due mesi. Non so se era una scusa o no, ma la polizia ci diceva che le imbarcazioni non potevano raggiungere l’isola, perché il mare era minato. Mancava tutto, e il peggio era la mancanza dell’acqua potabile. Di solito portavamo i barilotti dalla riva, dove c’era la cisterna che le navi riempivano. Quando venne a mancare quell’acqua si poteva utilizzare solo l’acqua piovana che si raccoglieva dai tetti nei pozzi. Ma i pozzi non erano costruiti bene e quindi l’acqua era fangosa, piena di varie bestiole. Per poterla bere la filtravamo e bollivamo. “
“Quella volta eravamo denutriti e stremati. Sedevamo per ore e ore sul muro che circondava il vecchio edificio della stazione di polizia e fissavamo verso est per vedere se arrivava la nave con la posta, l’acqua e gli alimenti. Ogni tanto qualcuno prendeva in mano la carta annonaria e leggeva ad alta voce l’elenco delle vivande e le dosi di olio, pasta, riso e pane che quotidianamente avremmo dovuto avere a disposizione. Alcuni ridevano nervosamente, altri bestemmiavano o facevano uscire dalle loro bocche dei suoni strani. Aspettavamo la nave e a volte ci chiedevamo chi tra noi avrebbe ricevuto il pacco di viveri da casa. Lo dividevamo in anticipo e sempre qualcuno rimaneva fuori dalla conta. Il dottor Eugenio Musolino e Gasperini avevano ricevuto un paio di volte i pacchi che hanno sempre diviso con tutti noi. Eravamo in trenta in una baracca e una volta ho ricevuto due biscotti, uno me lo sono lasciato per il giorno dopo.  Sulla nostra isola non c’erano molti animali. C’erano tante cimici, pidocchi e pulci che ci succhiavano quel poco sangue che era rimasto nelle nostre vene. Le chiocciole erano quasi scomparse, c’erano le lucertole e le cavallette. Mi ricordo anche di un cane marrone con macchie bianche che un giorno sparì. Mi risentii quando seppi che lo avevano fatto fuori i miei amici e si erano scordati di invitarmi. “

“Era estate, la siccità aveva seccato anche quel poco di vegetazione che c’era e non potevamo aiutarci in nessun modo. Per indigenza sembravamo dei derelitti che senza. Le notizie dal continente erano scarse, posta neanche a parlarne.”

“Dopo 52 giorni arrivò il piroscafo, portò le derrate, l’acqua e la posta. Poteva scriverci un solo membro della famiglia, la madre o la moglie. Le lettere erano spesso censurate. In quell’occasione la nave aveva portato anche del vino e arachidi. Berto ce lo annunciò gridando che dovevamo assolutamente approffitarne. Gli dissi che non avevamo soldi e che quindi non se ne poteva fare nulla. Ma senza pensarci troppo indicò la mia fede nuziale. Nemmeno io ci pensai su due volte e gliela diedi. Ritornò presto con la giacca in mano, le maniche legate e piene di arachidi. Aveva anche una bottiglia di vino. “
“Avevamo fame e abbiamo mangiato e bevuto finchè non siamo stati male e abbiamo vomitato. Un po’ perché non eravamo più abituati a mangiare, ma anche perché il vino era andato a male.
Sarà stato all’incirca in quel periodo che trasferirono alcuni di noi dalle barracche nelle casette che avevano costruito apposta.”

“La sera seguente avevamo già dimenticato quanto era successo, solo Berto aveva forti scrupoli di coscienza. Virgilio aveva l’abitudine di pregare a voce alta. “


“A volte andavamo a guardare gli zingari che stavano per conto loro, un po’ appartati dagli altri internati. Cucinavano all’aperto e si riscaldavano attorno al fuoco in gruppetti. Venivano da posti diversi dell’Italia e della Jugoslavia. Dopo i pasti suonavano i loro strumenti e cantavano in modo molto armonioso e malinconico – come sano farlo solo gli zingari. Una volta c’era tra di noi un ragazzo di carnagione scura, diceva di essere serbo. Gli si avvicinò uno zingaro ben vestito e gli chiese nella loro lingua se era zingaro anche lui. Il ragazzo gli rispose che era serbo. Lo zingaro gli Una volta, eravamo nella cucina comune e lui mi diede un osso di prosciutto già bollito, perché lo riutilizzasi. E lo feci. Avevo un pugno di fagioli rotti e una crosta di formaggio che mi aveva dato il dottor Eugenio. Il nostro panettiere Karel Novak, che faceva il pane per tutta l’isola ed era l’unico che non soffriva la fame, mi diede una manciata di pasta. Ma per insaporire la minestra avevo bisogno di altra carne e allora andai a caccia. Le lucertole erano difficilissime da catturare. Ma alla fine ne presi una ventina. Poi le cavalette. Con loro era più facile, ne catturai una trentina. Ho ripulito per bene tutte le parti, le ho tagliuzzate e bollite. In un’altra pentola avevo messo a bollire i fagioli e l’osso. Feci il soffritto con cipolla e aglio, aggiunsi i fagioli, poi l’osso e la ”carne”, e alla fine la pasta. Secondo i miei gusti aggiunsi un po’ d’acqua, del sale e alla fine la crosta di formaggio grattuggiata. La minestra era fatta. Ho invitato gli ospiti, in primis chi aveva contribuito, tra loro anche l’ingegnere Rustja. E mangiammo. Erano tutti entusiasti e mi chiesero la ricetta. Ma fino a oggi non l’ho mai svelata a nessuno. L’arte di arrangiarmi è una dote che ho ereditato da mio padre. Era una persona ragionevole, sapeva sempre arrangiarsi e mi è ancora d’esempio.La sua ferrea educazione mi ha temprato,è solo grazie a lui che sono ancora vivo.


“Sarace, mi aveva invitato al suo fuocherello sul quale cucinava in una lattina le chioccioline, era il suo pasto quotidiano assieme a un pezzetto di pane giallognolo. Gli chiesi perché non entrasse a far parte di uno dei gruppi per i pasti in comune, ma lui rispose che non poteva permetterselo. Delle cinque lire quotidiane doveva mandare a casa almeno tre, perché sua moglie e i figli ne avevano bisogno”
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Didascalie:

1 – 2 – Isole Tremiti – Torrione e Semaforo-Cartolina Postale –Sul retro: Timbro postale di Termoli –data 8 – 7- 1927. Davanti: lato a sin., Prop. ris. V. Avola – lato des., Istantanea di P. Pischedda- nell’angolo des. Il marchio di Virgilio Alterocca – Terni. Viaggiata da Termoli a Brindisi.

Questa cartolina, tra le poche prodotte all’epoca e per questo molto diffusa, contiene una missiva indirizzata al Dr. Vaccari Antonio Direttore Ospedale R. M. di Brindisi, scritta da [Don] Andrea Martini che sostituiva il Parroco delle Tremiti ricoverato nel medesimo Ospedale R. Militare per un intervento chirurgico. Dal repertorio dei parroci della Chiesa di S. Maria di Francesco Delli Muti, risulta  Parroco dal 1902 D. Primiano Barbieri.  Si riporta la trascrizione del testo, che inizia dal retro della cartolina postale e continua davanti, per documentare quale poteva essere l’attività religiosa ai tempi del confino alle Tremiti e le difficoltà della missione dei religiosi:

 “ Carissimo Sig. Direttore, oggi appunto fa un mese da che partii da Brindisi per questo luogo… di villeggiatura. Manco male che mi trovo da me stesso le occupazioni. Ho fatto il Precetto Pasquale… in ritardo [a] molti marinai e soldati ed alla microscopica popolazione… civile; fo qualche lezione a marinai e borghesi; predico tutte le sere in Parrocchia; il giorno 27 farò la 1° Comunione ad una trentina di fanciulli e fanciulle. Ma devo io provvedere a tutto, essendovi qui nella popolazione un cumulo di miserie materiali e morali. Immagini che la popolazione ha origine da ex-coatti! Il Parroco mi ha scritto che si è operato felicemente. Voglio sperare che nella 1° quindicina di agosto faccia ritorno. – Voglia gradire i miei ossequi e compiacersi di ricordarmi ai carissimi dottori. Andrea Martini”. Nel “cumulo di miserie materiali e morali” in cui riversavano la” popolazione… civile” e proscritti nelle colonie insulari di confino, dobbiamo non dimenticare anche tante cause di dolore per malattia, quale ad esempio la tubercolosi tubercolosi, determinata da infezioni , per  promiscuità ed insufficiente alimentazione: 5 lire al giorno, penuria di vestiario e clima malsano a San Nicola e a Ventotene, non potevano fare altro che creare miseria e infermità. In questi casi, dopo opportuni accertamenti sanitari, veniva autorizzata l’erogazione di qualche lira in più al giorno per vitto e latte, assegnazione di qualche indumento a chi ne era rimasto assolutamente sprovvisto. Già i “coatti” della “colonia borbonica” del 1877  si lamentavano con il Governo per l’abbandono in cui riversavano. Alcuni riuscirono a scappare dalle isole: furono arrestati nei pressi di Serracapriola, lì dichiararono di non desiderare nel modo più assoluto di tornare nella stessa Colonia di Tremiti, perché la miseria e l’ozio , nel quale si viveva, li spaventava. Il medico militare, Vito Susca scrive nelle sue memorie “…mi allontano e già son presso a rientrare nel Padiglione, quando il suono di una campana mi si fa udire. Curioso, al primo, che capita, ne domando il significato: è l’ora della mazzetta, mi risponde. Resto nella pristina ignoranza: quel vocabolo semibarbaro mi riesce nuovo all’orecchio, insisto quindi per una spiegazione in proposito, la non si fa aspettare. E’ il coatto, mi si soggiunse, che va a riscuotere i suoi giornalieri cinquanta centesimi, è il sussidio che dal Governo gli si dà, perché non muoia di fame….Adunque dipende dal Governo il miglioramento morale e materiale degli abitanti liberi, e de’ coatti delle isole Tremiti, onde m’auguro, che quanto prima Sua Eccellenza il Presidente de’ Ministri, Avv. Francesco Crispi, da illustre giureconsulto, legislatore e sommo patriotto, qual è, voglia arrecarvi savi provvedimenti”. (dal Volume “ Maria Teresa De Nittis , La memoria dello sguardo.Il paesaggio delle Isole Tremiti,un mare di cartoline,Thyrus,2012).

3- Tremiti, 1940

4 – Tremiti, giorno della distribuzione della posta.La corrispondenza di confinati e dei loro familiari, confluì tutta, in sede ministeriale, nei rispettivi fascicoli personali che rappresentano oggi una triste antologia di sofferenza, di miserie da cui emerge la dolorosa lotta per l’esistenza di mogli e figli rimasti senza il sostegno del capofamiglia, relegato in un’isola nella sua drammatica solitudine.

5 – S. Nicola di Tremiti – Via Firenze e panorama di S. Domino. Fot. Giuseppe Cacchione – prop. Ris. Luigi Santoro-Viaggiata – Foggia Ferrovia a Roma- data 18-9/33 – annullo postale: Mostra Rivoluzione F… Roma – b/n  color. a mano.Dopo il primo conflitto mondiale, nel 1926, con l’avvento del fascismo, fu abolito alle Tremiti il domicilio coatto e istituito il confino politico. Ai confinati fu concessa la facoltà di lavorare, di essere impiegati nelle attività agricole e artigianali, contribuendo, in tal modo, con i cittadini liberi al miglioramento delle condizioni economiche dell’isola. In questa foto,  le isole Tremiti sono già un Comune autonomo con una vita amministrativa propria ( R.D. Legge n.35 del 21 gennaio 1932). A sinistra e a destra, si notano lunghi cameroni in muratura, adibiti per alloggio dai confinati, alcuni di essi sono stati ripresi mentre camminano frettolosamente tra il caseggiato o radunati in piccoli gruppi. La cartolina è indirizzata all’Uff. Commissario Alfredo Franceschelli. (dal Volume “ La memoria dello sguardo.Il paesaggio delle Isole Tremiti,un mare di cartoline,Thyrus,2012).

6 – Scheda d’archivio della R.Direzione confino di polizia del proscritto Settimelli Renato condannato a 5 anni di reclusione datata 25 ottobre 1930.

7 – La cucina del Ventennio, Mondadori.

8 – Anna Foa, Andar per luoghi di confino, Il Mulino.

9 – Targa della mensa socialista Sandro Pertini a Ventotene.