“… nulla del tradimento sospettando, al lito del mare scesero, ove era il corpo, andando la Croce avanti e i torci accesi, levando il finto morto, due a due alla Chiesa tornarono.” L’inganno del pirata Almogavaro e il massacro dei Cistercensi del 1334.

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1237 Anno Domini Mccxxxvii –  I Cistercensi erano celebri per fama di santità e operosità. La loro abbazia Santa Maria di Casanova, nei pressi della Villa Ciliera, in provincia di Pescara, nella diocesi di Penne, fu per oltre sette secoli, una delle più ricche e stimate abbazie d’Abruzzo; i monaci che ivi operarono raggiunsero il numero di cinquecento. Si può quindi immaginare la grandezza del Monastero, che possedeva anche il mulino, il frantoio e tutto ciò che occorreva per vivere con una certa autonomia. I loro manoscritti, eseguiti magistralmente in caratteri longobardi, furono famosissimi per le miniature e per la documentazione storica. Ci fu un periodo in cui Civitella assurse a grande importanza proprio per la sua Abbazia, ed ebbe notevoli  privilegi e protezione da Ferdinando I d’Aragona, da Giordano e Lorenzo Colonna, dai Carafa, ai quali passò successivamente in feudo. (Restituto Ciglia, in “L’arte benedettina nel pescarese”). Il loro compito, nel prendere le redini di “Santa Maria a Mare”, come si chiamò quella delle Tremiti, non era per certo facile né era la vita che lì dovevano condurre. I Benedettini avevano lasciato il Monastero, e soprattutto la grande Chiesa, in uno stato veramente pietoso. Gran parte delle difese erano crollate, per cui dovettero intervenire con urgenti restauri. Nello stesso tempo riorganizzarono la vita religiosa della Comunità e del riassetto economico. Con le nuove donazioni e i precedenti lasciti, il patrimonio dell’Abbazia aumentò notevolmente e ricominciarono le visite di signori e mercanti. La fama dello splendore dell’Abbazia di Tremiti si sparse ovunque suscitando anche l’interesse dei predoni del mare, che iniziarono a scorazzare intorno alle isole. Tentarono varie volte di scalare San Nicola, per penetrare nel  Monastero, ma ne furono respinti, grazie  al fortilizio costruito per ordine di  Carlo II d’Angiò e alle opere che i Benedettini avevano in precedenza realizzato, nonostante ciò, prevalse l’astuzia dei pirati dalmati di d’Almisso, i quali, come descrive, P. Benedetto Cocorella in:”Tremitanae olim Diomedeae Insulae accuratissima descriptio”, libro III, cap.III,  riuscirono a introdursi con l’inganno nell’isola badiale  trucidarono monaci e laici e saccheggiarono il monastero che in seguito fu abbandonato e inabitabile per molti anni.

Vivendo dunque virtuosamente ed in pace D.O.M. ( Deo Optimo Maximo) servendo a Dio, passando i giorni e le notti in studi e fruttuosi esercizi, e non altrimenti, che erano tenuti celebri di vita e santimonia: così nessuno s’oppose a quei santi huomini circa l’abbondare essi in tesori, oro, argento e grandi ricchezze. Perciochè moltissimi per devozione trasferivansi all’Isola, e havendo adorata la Immagine della Beatissima Vergine, e offerto i loro doni, tornavano alle loro proprie case. Per lo cui fatto sparsesi il grido, nei paesi confini, che il Tempio era abbondante d’oro, gemme e di simili ornamenti. Il che inteso d’alcuni del Castello Almisio, (lontano da Spalatro, Castello della Dalmazia dieci miglia)i quali mossi non per cagion di pietà né devozione, anzi per guadagno e avarizia, deliberarono di navigar nell’isola, ove trovando la cosa ricca come si narrava, tutto ciò che rubare potrebbero in altrui paese trasportassero. Erano quelli di tal Castello quasi tutti ladri per risuono pubblico, esercitando l’arte di corsari, turbando acerbamente il mare Adriatico. Pertanto, posto in ordine la fusta, fatta vela verso gli scogli tremitani, approdando nel porto pacifici senza divieto di salire al monastero il come stavano pensando. Per lo che fingendo che uno dei compagni era morto pel fastidio del mare, volevano come cristiano seppellirlo. Il quale a guisa di morto in una cassa a maniera di bara l’accomodarono, sotto di cui spade e coltelli insieme di nascosto adattarono. Havendo dunque macchinato tal frode, due di loro andarono a trovare nel monastero i Monaci, sotto spetie di religione, chiedendo loro con gran prieghi instantemente, che celebrare volessero le esequie e dare sepoltura al defunto. I Religiosi credendo essere la cosa come la esponevano, buonamente con pietà e prieghi loro assentirono, nulla del tradimento sospettando, al lito del mare scesero ove era il corpo, che essere morto affermavano, andando la Croce innanzi e i torci accesi, levando il finto morto, due a due alla Chiesa tornarono. Dietro dei quali seguivano i sacrileghi macchinatori, huomini  perfidissimi (che di loro dovevano essere homicidi) col capo basso e mesto viso, esalando dal petto alti sospiri sopra il simulato morto, quasi che del passato compagno internamente piangessero. O nefanda e horrenda sceleraggine, ribalderia non più udita ai nostri secoli! Hora avendo posta giù la cassa in mezzo alla Chiesa, i Religiosi in cerchio stando celebrando le funebri esequie, quei nefandi, essendo giunto il tempo commodo da dare effetto alla sceleraggine di già pensata, mirandosi vicendevolmente l’un l’altro, al segno tra se dato, e di fatto dando tutti di mano alle spade, aprendo la cassa colui che si teneva morto, alzatosi, a guisa di infuriati ubbriachi, contro i santi huomini, come lupi rapaci, assaltando le umili pecorelle, ferendoli atrocemente, diedero a tutti morte.

 Sì che uccisi quasi tutti i Religiosi come i loro servi, rimase sparso tutto il pavimento del monastero dal sangue dei Religiosi. Indi daronsi alla rubberia delle cose sacre, saccheggiando tutte le cose, che erano al culto divino e al tempio consacrate, il rimanente delle utensilie del luogo portarono via, scorrendo tutta la casa, avidi della preda, struggendo, nulla lasciando che le mura senza depredazione. Togliendo dunque i mobili che giudicarono facili ad estraere, il rimanente mandarono a ferro e fuoco, spiando le fabbriche in fuori la parte da la Chiesa, ove era l’Altar Maggiore, a cui non so perché perdonarono; salvo forse per la penuria del tempo, ovvero presi dal divino terrore. Rovinato dunque, estratte tutte le cose ed abbattuto il monastero, essendosi arricchiti per la nobile preda, tornarono a casa havendo eseguito il loro intento, molto giocondi, gloriandosi sommamente delle ricche spoglie, non sapendo i miseri il castigo che per cotanta inhumana sceleraggine dal giusto Iddio dovevano ricevere”.

 Questo stesso episodio viene riportato dal Summonte nella “Storia del Regno di Napoli”, il quale precisa che avvenne al tempo del Re Ruberto (1309 – 1334). Il capo dei pirati che si finse morto si chiamava Almogavaro.

La storia dell’Abbazia di Santa Maria a Mare, dopo l’abbandono da parte dei Cistercensi è assai confusa. Di commenda in commenda, fu affidata al Cardinale Giovanni Dominici del titolo di S. Sisto, il quale vi inviò un Eremita, un tale Pietro Palomo, per custodire quel po’ che vi era rimasto, coltivare il culto della Vergine ed assistere i numerosi pellegrini i quali, nonostante i pericoli dei pirati e del mare, continuavano a venire a visitare la Santa Casa e prostrarsi davanti al Cristo Grande, che anch’esso era scampato alla distruzione.

Bibliografia

B. COCORELLA, Cronica istoriale di Tremiti, rist. anastatica (Ediz. originale, Vinetia, 1606), Bologna, Arnaldo  Forni Editore, 1989, 53 [4] p.

L’opera originale di Benedetto Cocorella di Vercelli, Canonico Regolare della Congregazione Lateranense, è un manoscritto in latino del 1508 dal titolo”Tremitanae olim Diomedeae Insulae accuratissima descriptio”, rinvenuto nella biblioteca dell’abbazia delle Tremiti da un confratello, Alberto Vintiano  da Crescentino.

A.M. DI CHIARA, La Montecassino in mezzo al mare. Breve guida delle Isole Tremiti, Isole Tremiti, Edizioni Abbazia Santuario  S.Maria a Mare (Lucera, Tipografia C.Catapano), 1980,71 p.

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Il complesso monastico di San Nicola. I Cistercensi dotarono il monastero tremitese di una rete fittissima di fortificazioni. La presenza di pirati dalmati intorno alle isole indusse lo stesso governo angioino a rafforzare le fortificazioni preesistenti nel periodo benedettino e a stabilirvi nel 1294 un presidio regio formato da cento uomini in estate e da cinquecento in inverno. Nei documenti della seconda metà del XIII secolo le Tremiti si presentavano come una fortezza, le carte parlano di “Castrum insulae Tremitanae”.  Ciò nonostante,  tra il 1334 e il 1343 i Cistercensi, in seguito al saccheggio compiuto dai pirati dalmati abbandonarono il monastero tremitese;

Tremitanae olim Diomedeae Insulae accuratissima descriptio”, libro III, cap.III, del R.P. Benedetto Cocorella  nel quale narra come i pirati riuscirono a introdursi con l’inganno nell’isola badiale e trucidarono monaci e laici e saccheggiarono il monastero;

Miniatura che raffigura i Cistercensi in preghiera e a lavoro secondo la Regola di San Benedetto “Ora et labora” ; esempi di scrittura Longobarda ; Stemma dei Cistercensi; mappa dell’Italia Cistercense sec. XII-XIV;